Il nuovo libro di Rosella Postorino, la tragedia della Bosnia e la mia esperienza

Il nuovo libro di Rosella Postorino, la tragedia della Bosnia e la mia esperienza

Ho appena finito di leggere il nuovo libro di Rosella Postorino che si intitola “Mi limitavo ad amare te”.
Mentre leggevo mi sono commosso più volte, sia per la storia, che narra di bambini bosniaci, spesso orfani, portati da Sarajevo in Italia per sottrarli alla guerra, ma che vanno  incontro a un destino comunque crudele, fatto di solitudine, nostalgia, emarginazione e di disperata ricerca di integrazione, sia perché il romanzo mi ha riportato in Bosnia Erzegovina, un paese che amo, come in genere ho amato la ex Jugoslavia.
La prima volta che attraversai quei luoghi avevo diciassette anni e viaggiavo ancora con i miei genitori. Entrato nell’estremo Nord, in quella che è ora la Slovenia, dopo Zagabria, in Croazia, dovetti affrontare la realtà di un popolo povero. Fino ad allora avevo vissuto solamente nel Nord d’Italia, fra Liguria, Lombardia ed Emilia, dove il livello di vita era in genere buono, e non sapevo cosa volesse dire appartenere a una comunità che faceva fatica a vivere decorosamente. Non potevo neanche immaginare che ragazzini e bambini più giovani di me mi corressero incontro per chiedermi l’elemosina.
Poco più di cento chilometri dopo Zagabria voltammo a destra, lasciando la malconcia autostrada per Belgrado, e dopo pochi chilometri la Croazia finì ed entrammo in Bosnia. Il primo paese bosniaco si chiamava Bosanska Gradiška e non lo dimenticherò mai. All’epoca mussulmano, oggi, dopo la guerra civile e la pulizia etnica, serbo, versava in un profondo stato di povertà ed era popolato in centro solo da uomini seduti ai tavolini all’aperto di squallidi bar. Per la prima volta, però, vidi una moschea e udii un muezzin e capii che quel luogo mi dava l’opportunità di uscire dall’Occidente e di entrare in un mondo nuovo che emanava un fascino per me ancora misterioso.
Mi aggirai felice fra quelle povere case, poi proseguimmo.
Sempre più attratto da quello che durante il viaggio scorreva davanti ai miei occhi – che gioiellino la vecchia Travnik! -, diversi giorni dopo arrivai a Sarajevo e la città mi incantò. Sembrava all’epoca un caotico e al contempo armonico miscuglio di civiltà. Il centro aveva un’impronta turco ottomana, con le moschee, le scuole coraniche e la torre dell’orologio, ma c’erano anche chiese cristiane e sinagoghe. Quel che più importava, però, era che la Bosnia d’allora, parte della laica Yugoslavia, era una società  secolarizzata dove i matrimoni fra serbi, croati e mussulmani erano cosa comune e dove tante famiglie non provavano un senso di appartenenza particolare per nessuna di quelle etnie. Erano semplicemente yugoslavi.
Negli anni seguenti tornai diverse volte in quelle terre. Col tempo, l’economia sembrava migliorare e la variegata bellezza della Yugoslavia, fra coste mediterranee per secoli legate a Venezia, valli slovene simili all’Austria, angoli intatti di impero Ottomano e monasteri serbo-ortodossi, mi stordiva sempre più.
Poi arrivò la guerra civile e fu per me un dolore acuto, mai del tutto superato. Lontano da quei luoghi, all’epoca vivevo in Olanda, vedevo in televisione crollare la Yugoslavia in mano ai tanti, sempre più feroci nazionalisti, senza che l’Europa facesse qualcosa di concreto per riportare la pace, e inorridivo quando udivo le storie raccapriccianti che filtravano da quella terra ormai in mano ai tagliagole.
Tornai in quei luoghi appena mi fu possibile e il mio cuore pianse di fronte a quell’orrore.
Decisi allora di ambientare un capitolo del mio primo romanzo, #ColVentoInPoppa, in Bosnia Erzegovina, focalizzandomi su due luoghi in particolare, Mostar e Višegrad, che amavo ma che, rivisti dopo la guerra, mi facevano sprofondare nello sgomento.
Furono pagine dure da scrivere.
Immagino che anche alla Postorino sia accaduto lo stesso.

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